lunedì 9 luglio 2012

Cleanliness freak

Sono tornato a casa da un paio di mesi, ma non ho avuto ancora voglia di elaborare un post sul ritorno, e su quello che ha comportato. Aspetto che le cose si allontanino un po', per poterle mettere a fuoco ed avere una visione di insieme. Nel frattempo, di tanto in tanto mi vengono in mente frammenti, flash, e ci ragiono sopra. Sono per lo più degli sprazzi di avvenimenti che ricordo perché hanno fatto scattare il meccanismo di analisi noi/loro che, sottotraccia e senza che ne avessi intenzione, è stato la base portante del blog.
Un giorno, a una collega indiana, in ufficio, ho detto che non vedevo l'ora di togliermi di dosso la camicia e farmi una doccia. Dico: frase assolutamente neutra. Fa caldo, mi sento sudato, ho voglia di lavarmi. Lei mi ha guardato e ha detto: ma tu ogni quanto tempo ti cambi camicia? Mah, ho risposto io, ogni giorno, ogni due giorni. E devo anche dire che ho pensato che non era proprio bello ammettere di portare una camicia due giorni di fila, a volte. E lei a questo punto mi ha spiazzato. Ha detto: mio dio, sei proprio un "cleanliness freak". Come a dire, un maniaco dell'igiene. Ma la sfumatura era diversa, quello ho percepito è: non è che sei molto o troppo pulito, è che sei proprio fuori scala. Mai visto qualcosa del genere.
Quando l'ho raccontato a mia moglie, ha riso fino alle lacrime. Non ci voleva credere che a me, proprio a me, avessero detto una cosa del genere. Mi sono anche offeso un po' a dirla tutta. Ma non è quello il punto.
Il punto è che, prima di esserne cosciente, nella testa mi sono passate considerazioni che spaziavano in tutto lo spettro dei rapporti tra culture: dal razzismo, al sentirsi superiori, al politically correct del sono-solo-culture- diverse:
 - "mmm... quindi 'sta gente si lava poco...". Questa è stata la più interessante. Hai voglia ad essere giovane e aver vissuto il balzo digitale di internet e il nuovo millennio. Dai romani in poi lo straniero, che è barbaro, si lava poco. In questa considerazioni ci ho persino visto spuntare un eco del rapporto tra purità e impurità della matrice giudaico-cristiana. Per fortuna poi ho pensato che era solo un modo di ammantare di nobiltà una considerazione poco carina. Del resto sono un informatico, mica un antropologo.
- "mah, del resto una cultura diversa, è normale che ci siano differenze...". Questa considerazione è arrivata un micro-secondo dopo la prima. Il mio cervello si vergognava e cercava di trovare giustificazioni razionali; cercava di dimostrare di non essere un cervello razzista.
- "...e poi siamo noi occidentali che ci laviamo troppo". Il pendolo era arrivato all'estremo opposto dell'oscillazione. La denigrazione della propria cultura per giustificare quella degli altri.
...Ma cosa penso davvero? Ci ho riflettuto un po', senza trovare un ragionamento che non mi sembrasse falsato da pregiudizi, di un tipo o dell'altro. Poi, per fortuna, mi è venuta in mente mia nonna. Che non è una "cleanliness freak" e che lava panni molto, molto meno frequentemente di mia madre o di mia zia. Perché? Salto culturale, generazionale, cambio epocale di civiltà - da quella contadina a quella dei consumi? attenzione all'ambiente o al risparmio?
Lavatrice.
Mia nonna non ha la lavatrice.
Come la maggior parte delle persone in India. Compresa la mia collega, che mi raccontava che lavava (a mano) i vestiti del ragazzo.
Morale della favola numero uno. non c'è bisogno di mettere in mezzo scontri di civiltà o distanze culturali. A volte la realtà è semplice, e diretta. Il rasoio di Occam è sempre affilato.
Morale della favola numero due. Chi si atteggia a superiore, ricordi che quello che siamo è, in larga parte o del tutto, dovuto a quanto è stato fatto prima di noi. E che abbiamo poco da vantarci di essere migliori di altri, se questa superiorità non ce la siamo guadagnata in prima persona. La morale numero due è dedicata, in particolare, alla mia parte intollerante. Che ha fatto presto a dimenticare che in hotel avevo il servizio lavanderia.

martedì 1 maggio 2012

"Sì Sir, ma poco!"

Quando ritorno in hotel con la macchina, la procedura è sempre la stessa: l'automobile viene ispezionata all'interno, all'esterno, sotto mediante uno specchio, e viene fatto passare un cane tutto intorno. Il perché del cane lo sapevo, per sicurezza ho voluto chiedere comunque all'autista.
"Ma il cane serve per..."
"Sì Sir, servono per scoprire se c'è dell'esplosivo"
"mmm.. lo immaginavo"
"Brave bestie Sir, fanno un ottimo lavoro. E vengono addestrate ogni giorno! Le portano ogni giorno nel basement, nel sotterraneo, per addestrarsi"
"Ma scusa, se devono imparare a riconoscere gli esplosivi... Mi stai dicendo che tengono dell'esplosivo sotto l'hotel?!?"


La cultura non conta, però...

Come ho detto in un commento, guardo gli indiani senza trovare un equilibrio nel sentirli uguali/diversi, e oscillo come un pendolo tra i due estremi: sentirli alieni o guardarli in controluce e vederli assolutamente simili a noi.
Ora ho capito che la cultura è una sovrastruttura che non cambia così nel profondo le persone. Il mio autista, per esempio, sembra una brava persona, è un indiano di mezza età con figli, moglie, cresciuto nell'India rurale. Non riuscirei a pensare a nessuno più distante di lui da un mio collega di Napoli - alto, occhi azzurri, giovane. Eppure, il mio autista indiano una volta mi ha fatto un ragionamento che era la copia perfetta (parola per parola!) di uno analogo fatto dal mio collega napoletano. Seduto sul sedile della macchina accanto a questo sconosciuto scuro scuro, ho avuto un deja-vu così forte che è stato come se mi scoppiasse un petardo in testa. Da quel momento è come se si fosse rotto qualcosa - guardo persone e vedo persone, non me ne frega più niente se sono alte, basse, marroni, gialle. Solo persone.
Anche se limitatamente, però, la cultura conta qualcosa nella vita di tutti i giorni - le reazioni che opponiamo ad essa, e al mondo, e alle altre persone quelle no, non cambiano. E la cultura e la società, qui, significano innanzitutto regole sociali.
 Parlando con una mia collega, S., sono riuscito ad entrare di più in contatto con la vita di tutti i giorni in India. E quello che ho visto non mi è piaciuto granché. I vincoli che gravano sulle persone sono maggiori qui. Non parlo di leggi che limitano la libertà, ma di una società che ti impone un determinato ruolo. Certo, il notaio vuole il figlio notaio in tutto il mondo, chi lo può sapere meglio di noi italiani? Ma se il figlio del notaio in Italia decide che vuole fare il salumiere, al padre potrà dispiacere e le persone intorno potranno pensare che è un fesso, ma certo non sarà ostracizzato e la sua famiglia non ne riceverà disdoro. La collega in questione si è trovata il ragazzo da sola ed ha dato un profondo dispiacere alla famiglia per questo - niente fidanzamento combinato. Solo dopo molti combattimenti i suoi genitori si sono rassegnati. Nel frattempo il bravo ragazzo che si era trovata ha iniziato a picchiarla, perché troppo geloso. Una volta si è presentata al lavoro con una bella ecchimosi sulla fronte. Dalle descrizioni che ho sentito, mi sono fatto l'idea che il ragazzo non abbia idea di come gestire una relazione con una ragazza, e si faccia prendere dalla paura e dalla gelosia.
Lei si è trovata incastrata: sua la scelta, suo l'errore, le famiglie si conoscevano e non poteva dar loro il dolore di dire che le cose andavano male e che voleva tirarsi indietro. "A mio padre verrebbe un infarto, e i miei in-law (i miei suoceri) mi vogliono troppo bene per dar loro questo dispiacere". Io cercavo di essere gentile, le davo corda e cercavo di tirarla su. Errore. Il ragazzo le aveva fatto terra bruciata intorno, lei non ha amici, e credo che fosse la prima volta in assoluto che un ragazzo (uomo? ormai sono vecchio) si dimostrava, semplicemente, gentile. Lei si è affezionata, un po' troppo. Come il ragazzo, anche lei non sapeva maneggiare bene una relazione anche solo di amicizia con l'altro genere, e ho dovuto chiarire un po' di cose. Certo, dappertutto si fanno casini in questo campo - anche e sopratutto in Italia. Ma è la differenza che passa tra uno che mira al bersaglio e non lo centra e uno che si spara in un piede. Al lavoro siamo tutti moderni e avanzati, lavoriamo con i computer, parliamo Inglese e viaggiamo per il mondo. Su un muro del caffè di fronte all'ufficio c'è dipinta questa frase: "Essere bisessuali significa avere il doppio delle probabilità di avere un appuntamento". Roba che mi sarebbe sembrata inopportuna anche in un caffè di una discoteca, in Italia. Però questa non è la cultura dominante. Questo è solo... appunto, un po' di vernice su un muro spesso trenta centimetri. Insomma, qui ci sono regole, regole, regole sociali e culturali... e quando le persone ne escono fuori perdono le coordinate e non sanno bene come comportarsi. Ognuno ha un ruolo, qui, e il suo compito è recitarlo il meglio possibile.

venerdì 20 aprile 2012

Lost in translation

Ora mi sono quasi abituato all'inglese con accento indiano. lo chiamano Hinglish, qui. Sto riuscendo a capire anche qualche parola di quello che mi dice S., che viene dal sud dell'India e se veniva da una luna di Urano forse ci capivamo di più. Quindi la comunicazione fila liscia, bene o male, e non ci sono fraintendimenti sul significato: hai fatto bene-hai fatto male-cosa cavolo hai fatto. Eppure basta uscire dall'ambito oggettivo, e so che qualcosa viene invariabilmente perso nella comunicazione, lo sento appena sotto la superficie: è come vedere con la coda dell'occhio, sai che è passato qualcosa ma non sai cosa. Una volta, al collega K. raccontavo che mia moglie per il mio ritorno mi aveva promesso di cucinarmi tutto quello che volevo. Lui ha annuito gentile, è stato qualche secondo a pensare e poi ha detto: "E' il vostro modo di mostrare affetto, giusto?". Una cosa sottintesa, che per me era ovvia, non lo era affatto. Lui l'ha afferrata dal contesto e dal fatto che ha lavorato con altri italiani, e sa quanto siamo fissati con il cibo.
Insomma: quanto davvero comunichiamo? Quanto invece viene perso nel gap culturale?
Grazie ad un collega italiano, ho conosciuto una ragazza indiana: lui mi ha chiesto di portarle una cosa da parte sua, e abbiamo iniziato a chiacchierare (spoiler: nel seguito del post non succede assolutamente niente tra di noi, sono felicemente sposato). Parliamo molto via chat, lei è affascinata dall'Italia. Sembrano chiacchiere di due colleghi che si raccontano le rispettive vite. Ma è così? Quando le ho detto che io e mia moglie siamo stati amici per parecchio tempo prima di fidanzarci, e che siamo stati fidanzati per nove anni, ha perso letteralmente le coordinate, non capiva cosa volevo dire. Ancora, le ho fatto vedere le foto del paesello dove vivono i miei genitori - volevo farle capire che vengo da un posto che fino a non moltissimo tempo fa era abitato da pastori e zappaterra. Mossa sbagliata. Quando ha visto le foto, mi ha detto che era il posto più "posh" (chic, snob, elegante) che avesse visto, e che qui nemmeno le città erano così! Ho ottenuto l'esatto contrario dell'effetto voluto.
Ma comunque, tirate le somme credo che le sfumature, grossomodo, arrivano: lo vedo dal modo in cui i colleghi sgranano gli occhi ai miei commenti e ridono spiazzati, che è sovrapponibile al millimetro alla faccia dei miei connazionali. E lo vedo nei commenti della collega S., che mi ha fatto capire che non ha mai incontrato una persona così. Insomma, che sono strano l'hanno capito pure loro.





mercoledì 11 aprile 2012

L'Orientalismo de noantri

Il gioco tra Oriente ed Occidente è un gioco di sguardi, è un gioco di specchi. E' un gioco in cui ci si guarda e si pensa di apparire  in un certo modo agli occhi dell'Altro - perchè l'altro è l'Altro, il portatore della differenza. Questo, da quando il primo occhio francese si è aggrottato per vedere meglio, tra polvere e sole, la linea della costa egiziana. O da quando Ingres ha solleticato i desideri e i sogni di una Francia borghese e repressa con le sue rappresentazioni di Odalische. E' l'Orientalismo, bellezza. Sono convinto che le dinamiche del pensiero proprie di una cultura hanno la loro epifania nei grandi avvenimenti della storia e possono andare avanti indefinitamente finché non interviene qualcosa a modificarle. E quindi, quel misto di attrazione e repulsione con cui l'Occidente guarda l'Oriente va avanti, alternativamente, da un paio di centinaia di anni, se non di più. Possono cambiare le forme con cui si esprime, ma non i contenuti.
E così una volta mia moglie ridendo mi ha mostrato le foto di Aishwarya Rai chiedendomi se le indiane erano così - l'India, terra di sensualità senza inibizioni, vi ricorda qualcosa? Ingres sembrava quasi parlarmi: attraverso quadri, libri, e studi all'università era arrivato fino alla cucina di casa mia. No, comunque. Non sono per niente così. E per dovere di cronaca aggiungo che, per rassicurare mia moglie, è giunto in mio soccorso il mio lato queer, facendole notare che c'era ben poco di sensuale in ragazze che in ufficio portavano sandali alla francescana con tanto di calzini. Calzini grigi o marrone, con le dita divise. Roba che nemmeno il pigiamone di pile infeltrito, in quanto a eros.
Non tutti però possono avere l'apertura mentale della persona che ho sposato e che, con mia sorpresa, non ha ancora deciso di divorziare - anni di studi di lingue orientali e frequentazioni del medio oriente hanno dato a mia moglie un occhio più aperto sulle infinite varianti dell'essere umano, calzini compresi. Immaginatevi cosa mi sono sentito chiedere da persone che non erano mai uscite dal cortile di casa (e non è una colpa) e che non avevano la minima voglia di uscirne (forse questa un po' lo è). Una delle domande più gettonate da parte di tutti è stata se è vero che, dopo mangiato, ruttano - ah, l'India, Oriente lontano dove i barbari soddisfano i più bassi istinti. Appena dicevo di sì, che era capitato, giù tutti a scuotere la testa, e a niente valeva il fatto che dicessi che mi è parso che non fosse niente di ostentato, che anche a me non faceva piacere ma che erano solo delle sovrastrutture culturali. Niente da fare. Se fossimo stati nella Francia dell'Ottocento avrebbero pensato che erano da acculturare, nell'Inghilterra del Novecento che erano da colonizzare. Nell'Italia moderna, che non sanno stare a tavola.
Stessa solfa anche a livello lavorativo: "allora questi indiani, sono i tecnici onniscienti/gli scansafatiche assoluti/gli incompetenti ma volenterosi che tutti dicono?". No ragazzi, non lo sono. Sono delle persone. Con tutti gli scazzi, gli slanci, i colpi di intuito di una qualsiasi altra persona. Dopo solo un mese passato in India, riesco già a vedere attraverso l'Orientalismo, i quadri di Ingres, i libri di Said e gli specchi con cui ci guardiamo l'un l'altro da secoli. Non vedo nient'altro che persone come me. Chiusura un po' enfatica ma vera.

sabato 31 marzo 2012

Ma in televisione, i sikh in India sono come i neri negli USA?

o anche: della via indiana al multiculturalismo.
In ogni paese in cui sono stato, la televisione è stato un mezzo per capire il posto. Più dei programmi di informazione, quelli di intrattenimento, e più ancora di questi ultimi, la pubblicità. La pubblicità parla delle persone e di quello che vogliono, indirizzandosi alle persone. Rivolgendosi per lo più alla massa, la televisione è un mezzo per sua natura conservatore, e la pubblicità in particolare - se vuoi vendere qualcosa a qualcuno, direi che è buona regola non offenderlo, quantomeno... la pubblicità si attiene scrupolosamente al mainstream, senza deviare.
Questo cappello iniziale per dire, insomma, che reputo una televendita o uno spot un mezzo altrettanto buono che un libro per annusare l'aria che tira in un paese. Quindi, ho trovato interessante che nelle pubblicità che mostrano folle o gruppi di gente, trovo sempre la stessa miscela di tipi: ragazzi, qualche donna, e un sikh con il suo turbante, magari un personaggio con la barba (cioè, un musulmano). Mi danno la stessa sensazione delle pubblicità statunitensi, fintamente casuali ma attentamente studiate per dare a tutte le comunità una rappresentanza e non far sentire nessuno escluso. Il sikh viene usato per rappresentare, oltre che ovviamente un target per il prodotto, "l'inclusività", il voler rappresentare "tutti". E tutti, include ogni comunità e ogni religione. Insomma: il sikh viene usato nelle rappresentazioni televisive indiane come i neri d'america in quelle statunitensi, per dare l'idea di una rappresentazione di tutte le comunità.
Per ragioni storiche, ma anche geografiche (l'India è troppo vasta per poter essere mai stata un tutto omogeneo), ho l'impressione che l'India dia per scontata la diversità, e la coesistenza di diverse comunità sullo stesso territorio; ma sopratutto, dia per scontato che ogni comunità faccia parte della nazione allo stesso modo. Non voglio fare qui una apologia, so che ci sono frizioni continue tra le comunità indiane, e matrimoni tra persone di religione diversa sono ancora una rarità. Però guardo la televisione indiana, e vedo la società italiana. E mi domando: quanto, realmente, siamo pronti a pensare di un musulmano/cinese/nero, anche nato qui, che è italiano? Quanto siamo pronti a pensare che magari il particolare musulmano/cinese/nero che abbiamo davanti è anche pigro, farabutto, stupido - ma perché è lui che è così, e non perché è musulmano/cinese/nero? Guardo la televisione indiana, e la risposta la so.