lunedì 9 luglio 2012

Cleanliness freak

Sono tornato a casa da un paio di mesi, ma non ho avuto ancora voglia di elaborare un post sul ritorno, e su quello che ha comportato. Aspetto che le cose si allontanino un po', per poterle mettere a fuoco ed avere una visione di insieme. Nel frattempo, di tanto in tanto mi vengono in mente frammenti, flash, e ci ragiono sopra. Sono per lo più degli sprazzi di avvenimenti che ricordo perché hanno fatto scattare il meccanismo di analisi noi/loro che, sottotraccia e senza che ne avessi intenzione, è stato la base portante del blog.
Un giorno, a una collega indiana, in ufficio, ho detto che non vedevo l'ora di togliermi di dosso la camicia e farmi una doccia. Dico: frase assolutamente neutra. Fa caldo, mi sento sudato, ho voglia di lavarmi. Lei mi ha guardato e ha detto: ma tu ogni quanto tempo ti cambi camicia? Mah, ho risposto io, ogni giorno, ogni due giorni. E devo anche dire che ho pensato che non era proprio bello ammettere di portare una camicia due giorni di fila, a volte. E lei a questo punto mi ha spiazzato. Ha detto: mio dio, sei proprio un "cleanliness freak". Come a dire, un maniaco dell'igiene. Ma la sfumatura era diversa, quello ho percepito è: non è che sei molto o troppo pulito, è che sei proprio fuori scala. Mai visto qualcosa del genere.
Quando l'ho raccontato a mia moglie, ha riso fino alle lacrime. Non ci voleva credere che a me, proprio a me, avessero detto una cosa del genere. Mi sono anche offeso un po' a dirla tutta. Ma non è quello il punto.
Il punto è che, prima di esserne cosciente, nella testa mi sono passate considerazioni che spaziavano in tutto lo spettro dei rapporti tra culture: dal razzismo, al sentirsi superiori, al politically correct del sono-solo-culture- diverse:
 - "mmm... quindi 'sta gente si lava poco...". Questa è stata la più interessante. Hai voglia ad essere giovane e aver vissuto il balzo digitale di internet e il nuovo millennio. Dai romani in poi lo straniero, che è barbaro, si lava poco. In questa considerazioni ci ho persino visto spuntare un eco del rapporto tra purità e impurità della matrice giudaico-cristiana. Per fortuna poi ho pensato che era solo un modo di ammantare di nobiltà una considerazione poco carina. Del resto sono un informatico, mica un antropologo.
- "mah, del resto una cultura diversa, è normale che ci siano differenze...". Questa considerazione è arrivata un micro-secondo dopo la prima. Il mio cervello si vergognava e cercava di trovare giustificazioni razionali; cercava di dimostrare di non essere un cervello razzista.
- "...e poi siamo noi occidentali che ci laviamo troppo". Il pendolo era arrivato all'estremo opposto dell'oscillazione. La denigrazione della propria cultura per giustificare quella degli altri.
...Ma cosa penso davvero? Ci ho riflettuto un po', senza trovare un ragionamento che non mi sembrasse falsato da pregiudizi, di un tipo o dell'altro. Poi, per fortuna, mi è venuta in mente mia nonna. Che non è una "cleanliness freak" e che lava panni molto, molto meno frequentemente di mia madre o di mia zia. Perché? Salto culturale, generazionale, cambio epocale di civiltà - da quella contadina a quella dei consumi? attenzione all'ambiente o al risparmio?
Lavatrice.
Mia nonna non ha la lavatrice.
Come la maggior parte delle persone in India. Compresa la mia collega, che mi raccontava che lavava (a mano) i vestiti del ragazzo.
Morale della favola numero uno. non c'è bisogno di mettere in mezzo scontri di civiltà o distanze culturali. A volte la realtà è semplice, e diretta. Il rasoio di Occam è sempre affilato.
Morale della favola numero due. Chi si atteggia a superiore, ricordi che quello che siamo è, in larga parte o del tutto, dovuto a quanto è stato fatto prima di noi. E che abbiamo poco da vantarci di essere migliori di altri, se questa superiorità non ce la siamo guadagnata in prima persona. La morale numero due è dedicata, in particolare, alla mia parte intollerante. Che ha fatto presto a dimenticare che in hotel avevo il servizio lavanderia.

martedì 1 maggio 2012

"Sì Sir, ma poco!"

Quando ritorno in hotel con la macchina, la procedura è sempre la stessa: l'automobile viene ispezionata all'interno, all'esterno, sotto mediante uno specchio, e viene fatto passare un cane tutto intorno. Il perché del cane lo sapevo, per sicurezza ho voluto chiedere comunque all'autista.
"Ma il cane serve per..."
"Sì Sir, servono per scoprire se c'è dell'esplosivo"
"mmm.. lo immaginavo"
"Brave bestie Sir, fanno un ottimo lavoro. E vengono addestrate ogni giorno! Le portano ogni giorno nel basement, nel sotterraneo, per addestrarsi"
"Ma scusa, se devono imparare a riconoscere gli esplosivi... Mi stai dicendo che tengono dell'esplosivo sotto l'hotel?!?"


La cultura non conta, però...

Come ho detto in un commento, guardo gli indiani senza trovare un equilibrio nel sentirli uguali/diversi, e oscillo come un pendolo tra i due estremi: sentirli alieni o guardarli in controluce e vederli assolutamente simili a noi.
Ora ho capito che la cultura è una sovrastruttura che non cambia così nel profondo le persone. Il mio autista, per esempio, sembra una brava persona, è un indiano di mezza età con figli, moglie, cresciuto nell'India rurale. Non riuscirei a pensare a nessuno più distante di lui da un mio collega di Napoli - alto, occhi azzurri, giovane. Eppure, il mio autista indiano una volta mi ha fatto un ragionamento che era la copia perfetta (parola per parola!) di uno analogo fatto dal mio collega napoletano. Seduto sul sedile della macchina accanto a questo sconosciuto scuro scuro, ho avuto un deja-vu così forte che è stato come se mi scoppiasse un petardo in testa. Da quel momento è come se si fosse rotto qualcosa - guardo persone e vedo persone, non me ne frega più niente se sono alte, basse, marroni, gialle. Solo persone.
Anche se limitatamente, però, la cultura conta qualcosa nella vita di tutti i giorni - le reazioni che opponiamo ad essa, e al mondo, e alle altre persone quelle no, non cambiano. E la cultura e la società, qui, significano innanzitutto regole sociali.
 Parlando con una mia collega, S., sono riuscito ad entrare di più in contatto con la vita di tutti i giorni in India. E quello che ho visto non mi è piaciuto granché. I vincoli che gravano sulle persone sono maggiori qui. Non parlo di leggi che limitano la libertà, ma di una società che ti impone un determinato ruolo. Certo, il notaio vuole il figlio notaio in tutto il mondo, chi lo può sapere meglio di noi italiani? Ma se il figlio del notaio in Italia decide che vuole fare il salumiere, al padre potrà dispiacere e le persone intorno potranno pensare che è un fesso, ma certo non sarà ostracizzato e la sua famiglia non ne riceverà disdoro. La collega in questione si è trovata il ragazzo da sola ed ha dato un profondo dispiacere alla famiglia per questo - niente fidanzamento combinato. Solo dopo molti combattimenti i suoi genitori si sono rassegnati. Nel frattempo il bravo ragazzo che si era trovata ha iniziato a picchiarla, perché troppo geloso. Una volta si è presentata al lavoro con una bella ecchimosi sulla fronte. Dalle descrizioni che ho sentito, mi sono fatto l'idea che il ragazzo non abbia idea di come gestire una relazione con una ragazza, e si faccia prendere dalla paura e dalla gelosia.
Lei si è trovata incastrata: sua la scelta, suo l'errore, le famiglie si conoscevano e non poteva dar loro il dolore di dire che le cose andavano male e che voleva tirarsi indietro. "A mio padre verrebbe un infarto, e i miei in-law (i miei suoceri) mi vogliono troppo bene per dar loro questo dispiacere". Io cercavo di essere gentile, le davo corda e cercavo di tirarla su. Errore. Il ragazzo le aveva fatto terra bruciata intorno, lei non ha amici, e credo che fosse la prima volta in assoluto che un ragazzo (uomo? ormai sono vecchio) si dimostrava, semplicemente, gentile. Lei si è affezionata, un po' troppo. Come il ragazzo, anche lei non sapeva maneggiare bene una relazione anche solo di amicizia con l'altro genere, e ho dovuto chiarire un po' di cose. Certo, dappertutto si fanno casini in questo campo - anche e sopratutto in Italia. Ma è la differenza che passa tra uno che mira al bersaglio e non lo centra e uno che si spara in un piede. Al lavoro siamo tutti moderni e avanzati, lavoriamo con i computer, parliamo Inglese e viaggiamo per il mondo. Su un muro del caffè di fronte all'ufficio c'è dipinta questa frase: "Essere bisessuali significa avere il doppio delle probabilità di avere un appuntamento". Roba che mi sarebbe sembrata inopportuna anche in un caffè di una discoteca, in Italia. Però questa non è la cultura dominante. Questo è solo... appunto, un po' di vernice su un muro spesso trenta centimetri. Insomma, qui ci sono regole, regole, regole sociali e culturali... e quando le persone ne escono fuori perdono le coordinate e non sanno bene come comportarsi. Ognuno ha un ruolo, qui, e il suo compito è recitarlo il meglio possibile.

venerdì 20 aprile 2012

Lost in translation

Ora mi sono quasi abituato all'inglese con accento indiano. lo chiamano Hinglish, qui. Sto riuscendo a capire anche qualche parola di quello che mi dice S., che viene dal sud dell'India e se veniva da una luna di Urano forse ci capivamo di più. Quindi la comunicazione fila liscia, bene o male, e non ci sono fraintendimenti sul significato: hai fatto bene-hai fatto male-cosa cavolo hai fatto. Eppure basta uscire dall'ambito oggettivo, e so che qualcosa viene invariabilmente perso nella comunicazione, lo sento appena sotto la superficie: è come vedere con la coda dell'occhio, sai che è passato qualcosa ma non sai cosa. Una volta, al collega K. raccontavo che mia moglie per il mio ritorno mi aveva promesso di cucinarmi tutto quello che volevo. Lui ha annuito gentile, è stato qualche secondo a pensare e poi ha detto: "E' il vostro modo di mostrare affetto, giusto?". Una cosa sottintesa, che per me era ovvia, non lo era affatto. Lui l'ha afferrata dal contesto e dal fatto che ha lavorato con altri italiani, e sa quanto siamo fissati con il cibo.
Insomma: quanto davvero comunichiamo? Quanto invece viene perso nel gap culturale?
Grazie ad un collega italiano, ho conosciuto una ragazza indiana: lui mi ha chiesto di portarle una cosa da parte sua, e abbiamo iniziato a chiacchierare (spoiler: nel seguito del post non succede assolutamente niente tra di noi, sono felicemente sposato). Parliamo molto via chat, lei è affascinata dall'Italia. Sembrano chiacchiere di due colleghi che si raccontano le rispettive vite. Ma è così? Quando le ho detto che io e mia moglie siamo stati amici per parecchio tempo prima di fidanzarci, e che siamo stati fidanzati per nove anni, ha perso letteralmente le coordinate, non capiva cosa volevo dire. Ancora, le ho fatto vedere le foto del paesello dove vivono i miei genitori - volevo farle capire che vengo da un posto che fino a non moltissimo tempo fa era abitato da pastori e zappaterra. Mossa sbagliata. Quando ha visto le foto, mi ha detto che era il posto più "posh" (chic, snob, elegante) che avesse visto, e che qui nemmeno le città erano così! Ho ottenuto l'esatto contrario dell'effetto voluto.
Ma comunque, tirate le somme credo che le sfumature, grossomodo, arrivano: lo vedo dal modo in cui i colleghi sgranano gli occhi ai miei commenti e ridono spiazzati, che è sovrapponibile al millimetro alla faccia dei miei connazionali. E lo vedo nei commenti della collega S., che mi ha fatto capire che non ha mai incontrato una persona così. Insomma, che sono strano l'hanno capito pure loro.





mercoledì 11 aprile 2012

L'Orientalismo de noantri

Il gioco tra Oriente ed Occidente è un gioco di sguardi, è un gioco di specchi. E' un gioco in cui ci si guarda e si pensa di apparire  in un certo modo agli occhi dell'Altro - perchè l'altro è l'Altro, il portatore della differenza. Questo, da quando il primo occhio francese si è aggrottato per vedere meglio, tra polvere e sole, la linea della costa egiziana. O da quando Ingres ha solleticato i desideri e i sogni di una Francia borghese e repressa con le sue rappresentazioni di Odalische. E' l'Orientalismo, bellezza. Sono convinto che le dinamiche del pensiero proprie di una cultura hanno la loro epifania nei grandi avvenimenti della storia e possono andare avanti indefinitamente finché non interviene qualcosa a modificarle. E quindi, quel misto di attrazione e repulsione con cui l'Occidente guarda l'Oriente va avanti, alternativamente, da un paio di centinaia di anni, se non di più. Possono cambiare le forme con cui si esprime, ma non i contenuti.
E così una volta mia moglie ridendo mi ha mostrato le foto di Aishwarya Rai chiedendomi se le indiane erano così - l'India, terra di sensualità senza inibizioni, vi ricorda qualcosa? Ingres sembrava quasi parlarmi: attraverso quadri, libri, e studi all'università era arrivato fino alla cucina di casa mia. No, comunque. Non sono per niente così. E per dovere di cronaca aggiungo che, per rassicurare mia moglie, è giunto in mio soccorso il mio lato queer, facendole notare che c'era ben poco di sensuale in ragazze che in ufficio portavano sandali alla francescana con tanto di calzini. Calzini grigi o marrone, con le dita divise. Roba che nemmeno il pigiamone di pile infeltrito, in quanto a eros.
Non tutti però possono avere l'apertura mentale della persona che ho sposato e che, con mia sorpresa, non ha ancora deciso di divorziare - anni di studi di lingue orientali e frequentazioni del medio oriente hanno dato a mia moglie un occhio più aperto sulle infinite varianti dell'essere umano, calzini compresi. Immaginatevi cosa mi sono sentito chiedere da persone che non erano mai uscite dal cortile di casa (e non è una colpa) e che non avevano la minima voglia di uscirne (forse questa un po' lo è). Una delle domande più gettonate da parte di tutti è stata se è vero che, dopo mangiato, ruttano - ah, l'India, Oriente lontano dove i barbari soddisfano i più bassi istinti. Appena dicevo di sì, che era capitato, giù tutti a scuotere la testa, e a niente valeva il fatto che dicessi che mi è parso che non fosse niente di ostentato, che anche a me non faceva piacere ma che erano solo delle sovrastrutture culturali. Niente da fare. Se fossimo stati nella Francia dell'Ottocento avrebbero pensato che erano da acculturare, nell'Inghilterra del Novecento che erano da colonizzare. Nell'Italia moderna, che non sanno stare a tavola.
Stessa solfa anche a livello lavorativo: "allora questi indiani, sono i tecnici onniscienti/gli scansafatiche assoluti/gli incompetenti ma volenterosi che tutti dicono?". No ragazzi, non lo sono. Sono delle persone. Con tutti gli scazzi, gli slanci, i colpi di intuito di una qualsiasi altra persona. Dopo solo un mese passato in India, riesco già a vedere attraverso l'Orientalismo, i quadri di Ingres, i libri di Said e gli specchi con cui ci guardiamo l'un l'altro da secoli. Non vedo nient'altro che persone come me. Chiusura un po' enfatica ma vera.

sabato 31 marzo 2012

Ma in televisione, i sikh in India sono come i neri negli USA?

o anche: della via indiana al multiculturalismo.
In ogni paese in cui sono stato, la televisione è stato un mezzo per capire il posto. Più dei programmi di informazione, quelli di intrattenimento, e più ancora di questi ultimi, la pubblicità. La pubblicità parla delle persone e di quello che vogliono, indirizzandosi alle persone. Rivolgendosi per lo più alla massa, la televisione è un mezzo per sua natura conservatore, e la pubblicità in particolare - se vuoi vendere qualcosa a qualcuno, direi che è buona regola non offenderlo, quantomeno... la pubblicità si attiene scrupolosamente al mainstream, senza deviare.
Questo cappello iniziale per dire, insomma, che reputo una televendita o uno spot un mezzo altrettanto buono che un libro per annusare l'aria che tira in un paese. Quindi, ho trovato interessante che nelle pubblicità che mostrano folle o gruppi di gente, trovo sempre la stessa miscela di tipi: ragazzi, qualche donna, e un sikh con il suo turbante, magari un personaggio con la barba (cioè, un musulmano). Mi danno la stessa sensazione delle pubblicità statunitensi, fintamente casuali ma attentamente studiate per dare a tutte le comunità una rappresentanza e non far sentire nessuno escluso. Il sikh viene usato per rappresentare, oltre che ovviamente un target per il prodotto, "l'inclusività", il voler rappresentare "tutti". E tutti, include ogni comunità e ogni religione. Insomma: il sikh viene usato nelle rappresentazioni televisive indiane come i neri d'america in quelle statunitensi, per dare l'idea di una rappresentazione di tutte le comunità.
Per ragioni storiche, ma anche geografiche (l'India è troppo vasta per poter essere mai stata un tutto omogeneo), ho l'impressione che l'India dia per scontata la diversità, e la coesistenza di diverse comunità sullo stesso territorio; ma sopratutto, dia per scontato che ogni comunità faccia parte della nazione allo stesso modo. Non voglio fare qui una apologia, so che ci sono frizioni continue tra le comunità indiane, e matrimoni tra persone di religione diversa sono ancora una rarità. Però guardo la televisione indiana, e vedo la società italiana. E mi domando: quanto, realmente, siamo pronti a pensare di un musulmano/cinese/nero, anche nato qui, che è italiano? Quanto siamo pronti a pensare che magari il particolare musulmano/cinese/nero che abbiamo davanti è anche pigro, farabutto, stupido - ma perché è lui che è così, e non perché è musulmano/cinese/nero? Guardo la televisione indiana, e la risposta la so.



domenica 25 marzo 2012

Matrimoni combinati, come dire: come ti conosce mammà non ti conosce nessuno

In ufficio e a mensa, qui nell'ufficio indiano, ragazzi e ragazze si mischiano senza problemi, ridono e scherzano tra loro, si sfottono, si spingono, si pizzicano e si danno fastidio, come fanno tutti i ragazzi e le ragazze anche in Italia. So che qualcuno si è fatto anche una storiella con una collega.
Ma quanto queste storie possono diventare serie? E' possibile, anche per un ragazzo indiano ben educato, con un buon lavoro, che ha girato il mondo, scegliersi una moglie? Oppure i matrimoni combinati sono ancora la norma?
Come per ogni aspetto della vista sociale, mi sembra che l'India stia vivendo una fase di transizione, in cui un sistema sociale ancora ben solido e radicato convive con delle variazioni, che si stanno allargando a macchia di leopardo, non dappertutto e non in tutti i ceti sociali, ma troppe per costituire solo un'eccezione alla regola. il collega V. ad esempio mi raccontava che conosceva persone che si erano sposate al di fuori della propria casta, e sapeva anche di matrimoni tra indù e musulmani. Certo lui, dopo aver preso una laurea ed iniziato a lavorare, poi ha pensato che era arrivato il momento giusto per trovarsi una brava compagna... e ha chiesto alla madre di trovargliela, naturalmente appartenente alla sua stessa casta. Descritto da lui, e calato nella vita di tutti i giorni, un matrimonio combinato (si badi bene: combinato, non imposto) non è quella barbarie che uno si potrebbe aspettare. Lui e la sua attuale moglie non si sono sposati immediatamente, hanno avuto un fidanzamento che è durato due anni - si sono potuti conoscere bene, e ora sembrano felici. 
Ci sono vantaggi e svantaggi, insomma. Per chi qui non ha particolari grilli per la testa, un matrimonio combinato permette di pianificare con serenità la propria vita, e perlomeno per le persone che conosco io, e con tutti gli inevitabili distinguo del caso, sembra più che altro che chiedano alla famiglia di organizzare degli speed-dating, poi sono liberi di esprimere una opinione sulla persona che è stata presentata loro.
Non è tutto rose e fiori, e la pressione della famiglia c'è, eccome. Sempre V. ha aggiunto che se non avesse fatto così e si fosse sposato al di fuori della sua casta le sorelle poi avrebbero avuto problemi a trovare marito. Il collega K. mi ha raccontato che il padre, un giorno, l'ha convocato a casa. K. lavorava a 14 (quattordici!) ore di macchina, e se le è fatte tutte per farsi dire dal padre che era il momento che lui si sposasse, e che gli aveva trovato una brava ragazza di una famiglia amica. K. ha incontrato la ragazza, ma poi non si sapeva decidere. Il padre voleva un sì o un no, e gli ha detto: se non sai decidere, decido io per te. A quel punto K. ha chiesto un altro round con la ragazza, ha deciso gli piaceva, e ora sono sposati.
Non so... ancora e ancora, e anche per questo, non esiste niente che sia assolutamente giusto o sbagliato. Cerchiamo tutti di fare del nostro meglio, sperando che il destino (o, qui, mammà) ci metta a fianco la persona giusta. E se non è la persona giusta, almeno che sia una brava persona.

Caste

L'ufficio in India ha la moquette, sempre pulita. E un paio di punti ristoro. Anche quelli, sempre pulitissimi e sempre provvisti di tazze e bicchieri puliti, caffè e bicchieri di acqua. Una tale pulizia non l'ho mai vista in un qualsiasi spazio pubblico in Italia. Il nitore che regna nell'ufficio, però, non è il risultato di un particolare senso civico dei miei colleghi, ma più che altro il prodotto dell'incessante strofinare e riordinare di un esercito (un esercito! non è un modo di dire) di inservienti. In Italia non ho mai visto più di una-due persone che, a sera, passavano uno straccio umido sulle scrivanie e svuotavano i cestini; qui, sono letteralmente decine, e non smettono mai di pulire dappertutto, senza sosta, dalla mattina alla sera. Certo, molto efficiente, e però...
I miei colleghi indiani son dei giovani non di molto più bassi di me, in forma e qualcuno anche un pochino pingue. Sono gentili e sorridenti, scherzano tra di loro. Il personale di servizio, invece, sembra composto da dodicenni, tanto sono minuti e magri, sia gli uomini che le donne. Le cinture che tengono su le divise stringono un girovita che non conosce un grammo di grasso. Non alzano mai lo sguardo, e in ascensore - ma forse è una mia impressione - si schiacciano in un angolo. Ieri sono andato via dall'ufficio alle dieci di sera, e in ascensore è salito un ragazzino, non avrà avuto più di quattordici o quindici anni, imbiancato dalla testa ai piedi di cemento. Nei sotterranei stavano facendo lavori, e lui era ancora lì a quell'ora, a lavorare.
Era dunque, questo, il mio incontro con le caste dell'India? O era solo la mia immaginazione? 
Ho provato a sondare, con tutta la delicatezza possibile, l'argomento con chi lavora con me. Senza tuttavia ricavarne molto. S. è musulmano - e se anche gli avessi chiesto qualcosa, lui non avrebbe capito la domanda, e io non avrei capito la risposta: io e lui non riusciamo a capire nemmeno quale lingua parla l'altro. Degli altri, K. mi ha detto di essere nato in una famiglia "mista": padre induista, madre sikh. Aveva una casta di riferimento, quella del padre suppongo, ma con la mia estremamente limitata comprensione della faccenda, mi è parso di capire che ai suoi genitori non importasse granché, purché lui sposasse - come ha fatto - una brava ragazza del Punjab, di dove è originaria la famiglia. V. invece mi ha spiegato che apparteneva ad una sottocasta specifica, che storicamente era quella dei pecorai. Insomma non proprio il top. Eppure lui era lì, con una laurea ed un buon lavoro.
Insomma, facendomi guidare da quello che vedo, sull'argomento rimango perplesso e confuso. Tutto, qui, mi sembra avere il marchio della molteplicità e dei diversi aspetti. Come se la società non facesse che riflettere, su scala umana, la teologia induista: tanti dei, ma ognuno solo espressione di qualche aspetto dell'unicità.

sabato 17 marzo 2012

Altre cinque cose che non sapevo e ora so sugli indiani

Gli indiani mangiano male. Mangiano vegetariano/mangiano poco/fanno digiuni. Tutto vero, però poi adorano le schifezze dolci e i cibi precotti (almeno quelli che se lo possono permettere). Basta vedere quante buste liofilizzate di pasta simil-italiana e cibo cinese ci sono in un supermercato, o quanti frullati e dolci ingurgitano in mensa.

Gli indiani adorano il cricket. Io credevo di saperla già, questa cosa, ma solo stando qui mi sono reso davvero conto. Ieri ad un certo punto tutto l'ufficio ha smesso di lavorare e si è riversato davanti ai televisori perché il capitano della nazionale indiana stava per raggiungere la centesima centuria - come a dire che un ufficio si ferma perché Totti fa il centesimo gol.

Gli indiani gestiscono la diversità meglio di noi. In Italia la multiculturalità è arrivata da dieci-venti anni, e si vede. Ormai non sono nemmeno più infastidito dai discorsi razzisti, sono semplicemente annoiato. Qui sono abituati alla gestione della diversità nella vita quotidiana - i vegetariani, i vegani, i sikh, i musulmani, quelli del sud dell'India, quelli del nord... Ne consegue un gran casino, ma anche molta familiarità nella gestione linguistica e delle diversità causata da origini culturali diverse.

Gli indiani adorano le espressioni plateali. Se gli arabi fanno i fuochi artificiali con le parole, gli indiani non perdono tempo in salamelecchi, vogliono solo sganciare la bomba: quando arrivi in un posto, non sei il benvenuto,sei "the most welcome", il più benvenuto, manco fosse tornato un parente dalla guerra. Nelle pubblicità, noi facciamo intendere che, per esempio, un gelato è buono. Loro no, ci schiaffano sotto una scritta grossa così: "utterly delicious", assolutamente de-li-zio-so!

Le indiane non si mettono in tiro. Le attrici di Bollywood sono solo un miraggio. Non che le ragazze si vestano di stracci qui, anzi, ma in tre settimane qui non ne ho vista una "dress to impress". Parlando con i colleghi, semplicemente ho capito che per le ragazze non è necessario fare colpo su nessuno perché, quando decidi di sposarti, lo dici ai tuoi e loro provvedono a trovarti marito. Questa cosa mi ha dato parecchio da pensare, perché, pur con tutti i difetti possibili, questo sistema ha almeno il vantaggio, per le ragazze, di non doversi mettere costantemente "sul mercato".

mercoledì 14 marzo 2012

Matrimonio indiano

Ieri qui all'hotel c'è stato un matrimonio: rampolli di famiglie piuttosto facoltose, come poi mi ha detto la ragazza della reception. Venti lack, ha aggiunto: due milioni di rupie, solo per l'hotel, qualcosa come trentamila euro.  Sono arrivato da lavoro e ho trovato la hall invasa da decine e decine di parenti e amici degli sposi. Erano così tanti che ad un certo punto mi sono fatto indicare da un cameriere le scale di servizio perché gli ascensori non erano agibili, con tutte quelle signore in sari che andavano avanti e indietro. Di primo acchito, mi sono stupito che tutta quella massa di gente mi ricordasse il mio, di matrimonio. Ma del resto, la fauna era la stessa: vecchie zie indaffarate, vecchi zii imbambolati, e poi bambini che corrono, e preadolescenti paffuti e troppo alti. E poi, nei corridoi, persone che si chiamavano da una stanza all'altra, e ragazze che si preparavano, e mogli che facevano tardi e mariti che sbuffavano. Le famiglie degli sposi avevano alloggiato qualcosa come quattrocentotrenta persone.
La sera, dalla terrazza della piscina, si vedevano le persone che festeggiavano nel giardino: una quantità di gente. Sarebbe stato un signor matrimonio anche da noi: una decina di chioschi diversi per i cibi, e un palco per lo spettacolo. Il matrimonio è continuato il giorno dopo, come da copione per un matrimonio indiano. Il mio cameriere preferito, un ragazzo che non sembra avere nemmeno diciott'anni, mi ha confermato che i matrimoni durano diversi giorni qui. Certo, ha aggiunto, nel sud dell'India esagerano: quattro, cinque giorni... un paio bastano. Eh, ho pensato, c'è sempre qualcuno che è più terrone di te.
Noi in sud Italia facciamo matrimoni in grande stile, ma siamo dei pivelli in confronto agli indigeni: un mio collega indiano ha detto che al suo matrimonio c'erano mille e trecento persone, ma quello del fratello è stato anche più grande, ed un altro collega, che al suo erano in cinquemila e hanno dovuto affittare una scuola per farci entrare tutti. Ha aggiunto che i luoghi per matrimoni in india sono in grado di ospitare decine di migliaia di persone. Degli stadi, praticamente.
Il gusto indiano ama la ricchezza e il barocco. Così, il giorno dopo lo sposo si è prodotto in una una scena considerevole: vestito di bianco e oro, è montato su un cavallo (bianco, ovvio), mentre donne in sari coloratissimi e uomini con vestiti color panna e marrone, gli ballavano intorno. Lo sposo non sembrava per niente rilassato in quella posizione. Ho saputo poi che è tradizione che si sparino anche dei mortaretti. Altra tradizione - meno benvenuta - è che il cavallo si imbizzarrisca per il rumore e faccia finire lo sposo con il sedere per terra. Mentre dei suonatori di flauto e tamburo facevano del loro meglio per aumentare il casino, lo sposo ha percorso trenta/cinquanta metri in quella bolgia festante, per scendere davanti all'hotel, tirare un respiro di sollievo, e farsi assalire dai parenti pronti a fargli roteare intorno alla testa mazzette di banconote. Alla fine, si sono riuniti tutti sotto un tendone delimitato da colonne dorate, per una solenne mangiata.
Insomma: parenti, casino, musica, un sacco di roba da mangiare e esercizi ridicoli da eseguire davanti a tutti - credo che la differenza con i nostri, di matrimoni, sia questione di dettagli.

domenica 11 marzo 2012

Turista!

Sabato ho avuto la meglio sulla mia tendenza alla misantropia e mi sono alzato di buon'ora, deciso a fare il turista. Per minimizzare i costi sociali (aka interazioni con sconosciuti) ho utilizzato il servizio di accompagnamento dell'hotel: ti affitti auto e autista per tutto il giorno, e spendi circa 40 euro. L'autista ti accompagna dove vuoi e ti aspetta. Con questo autista però ho raggiunto il grado zero dell'incomprensione linguistica: non è che non capivo cosa diceva, non capivo nemmeno se parlava inglese o maharati! Perché ogni tanto intercettavo una parola in inglese, quindi il dubbio mi è rimasto....
Prima tappa: tempio della divinità locale, Chattushringi. Ho chiesto all'autista se voleva venire con me, e a quel punto si è attaccato a ventosa, seguendomi in tutti i posti - e scroccando gli ingressi, ma vabbè, per cinque rupie (sette centesimi), mi potevo permettere di fare il signore.
Il tempio fu costruito nel posto indicato da Chattushringi ad un banchiere locale; scavando nel posto indicato, fu trovata una "statua naturale" della divinità. La divinità è gentilmente offerta dalla società di telefonia locale, come si vede dal cartellone giallo sul frontone dell'ingresso.


I templi della città sono costruiti sulle colline circostanti, quindi ogni volta è una bella scarpinata a salire.
Tempietto di Ganesha, il dio elefante, dentro il perimetro del tempio:



Per accostarsi alla cella dove è presente la statua, bisogna togliersi le scarpe, cosa che il mio autista non vedeva l'ora di fare ogni volta per fare una preghiera. I templi indiani sono praticamente identici a quelli greco-romani nella funzionalità: una zona di rispetto in cui i fedeli possono accostarti alla cella della divinità, che però è preclusa. A differenza di una chiesa, che è un ambiente inclusivo (ti chiede di entrare),  i templi sono esclusivi, perché mirano a tenere a distanza - se pur minima - i fedeli. Anche il rapporto dei fedeli con la divinità non può che essere diverso da quello che abbiamo noi con le nostre - le abbiamo, le abbiamo: i santi cosa sono altrimenti? li usiamo nella stessa, identica, maniera: per chiedere qualcosa che non riusciamo a raggiungere da soli. Sappiamo che un santo, un tempo, è stato un uomo o una donna, ci può capire: è come rivolgersi ad un compaesano che ha fatto fortuna. Gli dei locali sono delle entità aliene, non hanno mai avuto né hanno forma o sostanza umana, a cui accostarsi con timore e sottomissione. Assomigliano di più al dio dell'antico testamento.
Secondo tempio visitato: Pataleshwar, tempio sotterraneo costruito in un unico blocco di pietra:


Tappa successiva: Shaniwarwada, castello costruito nel 1700 circa. Del castello rimangono i bastioni frontali e i muri perimetrali, più qualche rudere delle fondamenta. Il posto è bello e tranquillo, ed il giardino ben curato. In generale, in tutti i posto che ho visitato ho trovato studenti che approfittavano del fresco del giardino e della tranquillità per studiare. Molto belle le travature il legno:


e il portone centrale:


Io e il mio autista ci siamo fatti un giro sui camminamenti :)



Tappa successiva: Parvati. Solita scarpinata per salire sulla collina, ma ne valeva la pena, i templi sono coloratissimi e molto belli da vedere:



Qui tra un tempio e l'altro ci si muoveva scalzi. O meglio, io e il mio autista ci muovevamo scalzi, gli altri avevano i sandali e se li toglievano solo in prossimità dei templi. Ma non noi, che dovevamo fare i più devoti di tutti...
La giornata è finita al palazzo dell'Aga Khan, circondato anche questo da bellissimi giardini, in cui ho approfittato per fare merenda al sacco, premurosamente offerta dall'hotel e divisa con la mia ombra dai capelli rossi. Per entrare nel palazzo, biglietto: 5 rupie per i locali... 100 per i turisti! vabbè, 100 rupie sono poco più di un euro. Costo dell'ingresso, quindi, 105 rupie - il mio amico dai capelli rossi era venuto con me finora, lo potevo lasciare fuori? Ingresso:


Palazzo:



Si nota l'influenza coloniale, è stato costruito alla fine dell'ottocento. Nel palazzo è stato detenuto Gandhi per quasi due anni, dal '42 al '44, ed è sede di un associazione a suo nome ed un museo a lui dedicato. In un angolo raccolto del complesso, sono presenti due cippi funerari dedicati a Gandhi e a sua moglie, Kasturba.
Direi che non è stato male, questo giretto...




sabato 10 marzo 2012

Foto dell'ufficio....

... per far capire quanto stiamo finendo direttamente nella cacca in Italia.



Se il mondo è fatto a scale, noi stiamo capitombolando giù dalla rampa e loro stanno salendo in ascensore: spazi ampi, aree relax, a terra tappeti come se fossimo in una moschea. Sembra di stare in una sede di Google. 
Certo, comunque il tocco di esotismo non manca mai: sono arrivati in visita del clienti, danarosi, e guardate che cosa gli hanno... beh, direi che la parola esatta è "eretto":






Una colonna! cosparsa di petali e con un mandala colorato alla base. Sulla colonna era poggiata una lanterna. Hanno chiesto ai clienti di accenderne gli stoppini in segno di saluto e buon augurio - debitamente aiutati da ragazza in sari. 

Ho detto ai miei colleghi indiani che secondo me stavano prendendo i facoltosi clienti per il culo.





venerdì 9 marzo 2012

Uguali o diversi? Oggi diversi. Forse...

Oggi qui in India è Holi, la festa indu dei colori. Ieri in ufficio hanno cercato di persuadermi a lavorare dall'hotel, "for security reasons". In pratica, la gente per strada si tira addosso delle polveri colorate e dell'acqua colorata e profumata, e c'è pieno di gente ubriaca e festante. Insomma, pensavano che mi avrebbero tirato in mezzo e sarei arrivato al lavoro buono solo per una doccia.
Visto che al lavoro ci vado con la macchina dell'albergo, non c'era nessun problema e mi sono presentato regolarmente in ufficio. C'erano poche persone, la maggior parte era in giro a far festa. Del mio gruppo di lavoro c'eravamo solo io e S., l'unico musulmano - che, ovviamente, non festeggiava. Ero circondato dalle scrivanie vuote, e le poche persone che intravedevo da lontano in ufficio parlavano una lingua che non capivo. Inoltre, il fatto che fosse S. il mio compagno della giornata non aiutava: è piccolo, nero nero, i capelli pettinati con la riga a lato, sembra un incrocio tra calimero e un contadino calabrese del dopoguerra. A complicare le cose, io e S. praticamente non riusciamo a comunicare perché lui parla velocissimo, bisbigliando, con un accento fortissimo e insomma non capisco un accidente di quello che dice in inglese. In mensa, c'erano dei ragazzi con le mani e la faccia dipinti di un rosso così brillante da sembrare fucsia. Tutto l'insieme mi ha fatto sentire quanta distanza c'è con le persone che vivono qui, e quanto sono lontano da casa.

Add-on: si, vabbè, ma poi passa... insomma, alla fine sono solo sensazioni, che possono essere ribaltate in un attimo da qualcosa cosa che riequilibra la bilancia. Ecco, a sera mi sono ricordato che K., che si suppone dovrebbe essere il capo del gruppo di lavoro, prima ha cercato di non farmi andare in ufficio dicendo che non era sicuro, e poi mi ha assicurato che lui sarebbe venuto, salvo salutarmi a fine giornata con un "ci vediamo vederd... ehm, giovedì". Insomma, un altro continente, cultura, lingua... e soliti trucchetti? eseguiti anche male, tra l'altro!

domenica 4 marzo 2012

Primo giro a Pune, e seconda lezione

Oggi ho vinto la misantropia che usualmente mi attanaglia: ho richiesto un servizio di taxi che mi portasse "downtown", in centro, per iniziare a visitare la città. Per meno di trenta euro il cab mi ha portato in centro, mi ha aspettato, per poi scarrozzarmi in qualsiasi altro posto volessi. In pratica, avevo un autista personale.
Per arrivare a M.G. Road, il posto che mi era stato suggerito per fare un giro e vedere negozi, abbiamo dovuto fare una deviazione passando per una specie di baraccopoli. Il mio conducente mi ha detto che erano persone che rovistavano nella spazzatura e rivendevano quello che trovavano.
Il centro della città... inutile girarci intorno, è quanto di più polveroso, decrepito e povero mi sia capitato di vedere. Una strada di asfalto polveroso, larga e smangiata ai bordi, su cui viaggiano macchine, moto, risciò a motore e vecchissimi autobus, ammaccati e ridipinti, ammaccati e ridipinti, arrugginiti e ridipinti. Le macchine, a onor del vero, erano mediamente in condizioni migliori di quelle che vedo girare per Napoli. Ai lati della strada c'è un marciapiede, e anche quello si vede messo su decine di anni fa, quasi distrutto, la cui camminata è incrinata ed affossata praticamente in ogni punto. I proprietari dei negozietti che costeggiano la strada spazzano il marciapiede, spostando la spazzatura, che si ammucchia nell'angolo tra la strada e il rialzo del marciapiede.
I negozi sono rialzati dal livello stradale, e i proprietari attendono ai loro doveri seduti sui gradini. Le palazzine, alte due o tre piani, che ospitano tutti questi piccoli magazzini cadono letteralmente a pezzi. Hanno la parte sopra i negozi aggettante, e la facciata fatta da tante finestre di legno accostate una all'altra. Sul frontone di una ho letto che fu la "mansion" di qualcuno, costruita nel 1932. Ecco, da allora, non aveva mai visto manutenzione o una mano di pittura. Seduti per terra, appoggiati alle saracinesche chiuse, c'erano uomini e donne vestiti di stracci che chiedevano la carità. Bisogna dire, comunque, che i bottegai erano ben pasciuti e le persone che andavano in giro per shopping (sì, è il posto più rinomato per fare shopping) erano vestiti all'occidentale e tutti in tiro.
Sono stato accostato due volte da ragazzini, piccoli, con la fronte dipinta e a torso nudo, con delle fruste di corda in mano che facevano schioccare con un rumore secco che all'inizio ho scambiato per un petardo. Il mio autista mi ha detto, poi, che erano dei dalit - appartenenti alla casta più umile - che facevano, o più probabilmente fingevano di fare, penitenza in cambio di soldi.
Insomma, mi sono fatto un giro di venti minuti e sono venuto via.
La parte più interessante è stata, invece, parlare con il mio autista. E' di Mumbai, e si era trasferito a Pune. Il motivo del trasferimento, però, non era il lavoro - a quanto pare, di lavoro ce n'è più che a sufficienza un po' dappertutto in India. Si era trasferito per dare la possibilità al figlio di studiare in una scuola in lingua inglese, visto che a Pune i costi delle scuole erano un po' più abbordabili che a Mumbai. Lui stesso, mi ha raccontato, veniva da una zona rurale, e i genitori avevano fatto sacrifici per farlo studiare. Mi ha detto, basta impegnarsi, se c'è un problema c'è una soluzione, chiunque può migliorare la propria condizione. Per questo, non capiva le persone che chiedevano la carità per strada. Ecco, direi che anche il mio autista mi ha dato una bella lezione di vita.

sabato 3 marzo 2012

Lezioni dalle persone

Non sono una persona particolarmente socievole, tutt'altro: appena possibile, evito il contatto con persone che non conosco. E anche quando sono circondato da conoscenti, la socialità prolungata mi provoca stress; quindi, in questo inizio di fine settimana indiano me ne sto per fatti miei in hotel. Anche così, comunque, le persone con cui ho avuto contatti, davvero minimi (un cameriere al ristorante, l'allenatore del fitness center) mi hanno sorpreso e fatto pensare. Finora, più che l'India mi sono studiato per bene gli Indiani, a quanto pare...
Mentre facevo colazione, il cameriere, ovviamente sorridente e gentilissimo, mi ha chiesto se questo fine settimana non lavoravo. Io ho risposto di no, che avevo il week-end libero; poi, ricordandomi di mia moglie che di tanto in tanto mi da gomitate o pizzichi per farmi andare nella direzione giusta durante le conversazioni, invece di fissare attonito davanti a me per farlo andare via, ho chiesto se per lui non era giorno di riposo. "Domenica è il mio giorno di riposo, sir", mi ha risposto, "ma oggi chiederò di andare via prima, per studiare. L'undici di questo mese ho l'esame per l' MBA in sales marketing. Sa, è dura lavorare e studiare". Per chi non lo sapesse, un MBA è un master post-laurea che in Italia, a volare basso, costa decine di migliaia di euro. Insomma, la persona che oggi mi serve sollecita e premurosa, domani sarà un manager. Bella lezione di impegno personale e di sforzo per migliorare la propria condizione. Spero che mi insegni qualcosa.
Piccola aggiunta social-politica: sono giorni che leggo sul giornale locale articoli su articoli riguardo i livelli di istruzione, il numero di studenti che si preparano ad affrontare gli esami in questi giorni, e anche un articolo sul fatto che quasi la metà degli studenti qui nel Maharashtra studia in scuole la cui lingua esclusiva è l'Inglese. Insomma il cameriere, lo stato del Maharashtra e credo un po' tutta l'India sta puntando pesantemente sull'istruzione per migliorare la propria condizione economica.
Per quanto riguarda l'allenatore del fitness center... beh, quando mi ha chiesto di dove ero e gli ho risposto "Italy", lui ha ribattuto "oh, nice city". Insomma, tutti gentili ed educati, ma non è tutto oro quello che luce  - e chissà, magari è così anche per il mio cameriere :)



giovedì 1 marzo 2012

cinque cose che ho (dis)imparato sugli indiani oggi


Gli indiani sono tutti religiosi
Sarà. Però quando ho detto a Kartik, un mio collega, che volevo andare a vedere qualche tempio, mi ha detto che ci andavo da solo che lui ne aveva visti più che a sufficienza.

In India si mangia male
Certo, se andate a chiedere una pasta cotta veramente al dente. Se invece mangiate indiano si mangia benissimo.

In India si mangia speziato!
Che è un modo dire la frase al punto precedente in modo diverso. Si mangia speziato, embè?

In India ti puoi beccare un sacco di malattie
Ecco, di questo parliamone. Persino i miei colleghi indiani mi hanno detto che di questi tempi, che fa caldo, non vanno tanto in giro perché si possono beccare "infections". A Roma fai come i romani, no?

In India sono poverissimi
Qui ci sono famiglie che vivono per strada - e per strada, intendo che hanno un materasso steso in una piazzola di sosta e quella è casa loro. Però ho anche visto come stanno tirando su palazzi e palazzi di venti piani per la middle-class locale.

In India si parla l'hindi
Per ora, l'impressione è che i sudditi della regina non abbiamo mai levato le tende di qua. Tutte le conversazioni di lavoro sono tenute in in inglese, e almeno la metà delle volte tra colleghi si parla inglese. E anche quando parlano hindi, ci mettono dentro tante di quelle parole in inglese che quasi capisco quello che dicono.

martedì 28 febbraio 2012

La superficie liscia delle cose

Internet ci ha abituati a pensare che il mondo sia liscio, uniforme, omogeneo in ogni sua parte. Il sito di un hotel americano può essere perfettamente uguale al suo omologo russo, o indiano, o brasiliano. Stessi colori, stessa grafica, stesso utilizzo e informazioni. E così, tutto nel ciberspazio ci porta a pensare che viviamo in un unico, grande villaggio in cui gli essere umani ai suoi estremi non differiscono che per delle sfumature.
Eppure, ogni tanto in questa superficie liscia si aprono dei crepacci che fanno intravedere quello che c'è sotto. E' quello che mi è capitato durante la prenotazione on-line del mio hotel in India. Dopo aver prenotato, girovagavo per il sito per avere qualche info aggiuntiva, che so, sui luoghi da visitare lì intorno. Sono finito sulla pagina dei "siti partner", e ho cliccato su quello che sembrava un sito di una società di escursioni. Ecco, sembrava. Perché era invece un sito matrimoniale indiano. In un attimo mi sono trovato catapultato in un' orgia di sari rossi, di parenti festanti, e di signori che ringraziavano profusamente il sito perché avevano finalmente trovato una moglie.
E' anche per questo, del resto, che ho accettato di andare in India per un paio di mesi: per capire quanto possono essere diverse, davvero diverse, le persone del mondo. E per capire quanto, invece, sono accomunate dalla loro umanità. E' in fondo la domanda che, ogni giorno, rivolgiamo alla persona che di volta in volta ci troviamo davanti: quanto sei simile a me, e quanto sei diverso? che è una versione appena più articolata di una domanda ancora più fondamentale: mi posso fidare di te?
Quando pensiamo di poter rispondere a queste domande, di solito la persona che ci troviamo davanti in quel momento, ce la facciamo amica o ce la sposiamo - a seconda dei casi.

lunedì 27 febbraio 2012

Vado in India per lavoro. Per due mesi.


Le reazioni alla notizia sono state, grosso modo, le seguenti:

"AAAAAAHHHHH!!!!!"
" eh, sì, mi mandano lì per due mesi"
"ah vabbè, per due mesi...."
(mia madre, che pensava che mi deportassero per sempre)

"....."
"Amore? Amore?"
(mia moglie, che se avesse potuto mi avrebbe strozzato seduta stante)

"Attento a quello che mangi, puoi prenderti le malattie"
(collega 1)
"Attento a quello che bevi, che ti becchi il cagotto"
(collega 2)
"Lì vendono un sacco di oro, puoi prenderne un po'"
(collega 3. L'India, un posto dove, principalmente, prendere qualcosa - qualsiasi cosa)

"Ah-ah-ah! alla fine di hanno inc****to!"
(Amico 1. Ma non vale, è anche collega e sa come vanno queste cose)

"Mh-mh-mh... alla fine sono riusciti a mettertelo in quel posto"
(Amico 2. Anche lui collega - no, non ho solo colleghi come amici, 'sti due disgraziati li conoscevo da prima)

"Bello! ma ti pagano?"
(mio fratello, il soldo prima di tutto. Sarebbe stata la prima cosa a cui avrebbe pensato anche se fossi andato sulla Luna)

"Sì ma tanto il primo giorno verrà comunque punto dalle zanzare lì. E sono quelle che portano la malaria"
(Medico 1. Grazie, eh?)

"Ma che se le fa a fare tutte queste vaccinazioni? tanto, se si deve beccare qualcosa se la becca"
(Medico 2. I medici, la genìa più fatalista sulla faccia della terra)

"...potrebbe anche lavarsi i denti con l'amuchina..."
(Medico 3. E uno scafandro no? Comunque apprezzo la creatività, questa non sarebbe venuta in mente nemmeno a me)

"profilassi antimalarica?"
"Sì, sicuramente non l'avete, la prenoto magari...."
"Ma no, certo che ce l'abbiamo, ecco qui"
(Farmacista. C'è qualcosa che non so sulla mia città?)

"TèTèTèTè..."
(mia figlia di otto mesi, che non sa che non vedrà il papà per un po', e solo a pensarci mi si spezza il cuore)

"Bella di nonna!"
(mia suocera che, cuore di nonna, già pregusta i giorni in più passati con la nipotina)

"In India mangerai male"
(Tutti. Indistintamente.)