venerdì 20 aprile 2012

Lost in translation

Ora mi sono quasi abituato all'inglese con accento indiano. lo chiamano Hinglish, qui. Sto riuscendo a capire anche qualche parola di quello che mi dice S., che viene dal sud dell'India e se veniva da una luna di Urano forse ci capivamo di più. Quindi la comunicazione fila liscia, bene o male, e non ci sono fraintendimenti sul significato: hai fatto bene-hai fatto male-cosa cavolo hai fatto. Eppure basta uscire dall'ambito oggettivo, e so che qualcosa viene invariabilmente perso nella comunicazione, lo sento appena sotto la superficie: è come vedere con la coda dell'occhio, sai che è passato qualcosa ma non sai cosa. Una volta, al collega K. raccontavo che mia moglie per il mio ritorno mi aveva promesso di cucinarmi tutto quello che volevo. Lui ha annuito gentile, è stato qualche secondo a pensare e poi ha detto: "E' il vostro modo di mostrare affetto, giusto?". Una cosa sottintesa, che per me era ovvia, non lo era affatto. Lui l'ha afferrata dal contesto e dal fatto che ha lavorato con altri italiani, e sa quanto siamo fissati con il cibo.
Insomma: quanto davvero comunichiamo? Quanto invece viene perso nel gap culturale?
Grazie ad un collega italiano, ho conosciuto una ragazza indiana: lui mi ha chiesto di portarle una cosa da parte sua, e abbiamo iniziato a chiacchierare (spoiler: nel seguito del post non succede assolutamente niente tra di noi, sono felicemente sposato). Parliamo molto via chat, lei è affascinata dall'Italia. Sembrano chiacchiere di due colleghi che si raccontano le rispettive vite. Ma è così? Quando le ho detto che io e mia moglie siamo stati amici per parecchio tempo prima di fidanzarci, e che siamo stati fidanzati per nove anni, ha perso letteralmente le coordinate, non capiva cosa volevo dire. Ancora, le ho fatto vedere le foto del paesello dove vivono i miei genitori - volevo farle capire che vengo da un posto che fino a non moltissimo tempo fa era abitato da pastori e zappaterra. Mossa sbagliata. Quando ha visto le foto, mi ha detto che era il posto più "posh" (chic, snob, elegante) che avesse visto, e che qui nemmeno le città erano così! Ho ottenuto l'esatto contrario dell'effetto voluto.
Ma comunque, tirate le somme credo che le sfumature, grossomodo, arrivano: lo vedo dal modo in cui i colleghi sgranano gli occhi ai miei commenti e ridono spiazzati, che è sovrapponibile al millimetro alla faccia dei miei connazionali. E lo vedo nei commenti della collega S., che mi ha fatto capire che non ha mai incontrato una persona così. Insomma, che sono strano l'hanno capito pure loro.





mercoledì 11 aprile 2012

L'Orientalismo de noantri

Il gioco tra Oriente ed Occidente è un gioco di sguardi, è un gioco di specchi. E' un gioco in cui ci si guarda e si pensa di apparire  in un certo modo agli occhi dell'Altro - perchè l'altro è l'Altro, il portatore della differenza. Questo, da quando il primo occhio francese si è aggrottato per vedere meglio, tra polvere e sole, la linea della costa egiziana. O da quando Ingres ha solleticato i desideri e i sogni di una Francia borghese e repressa con le sue rappresentazioni di Odalische. E' l'Orientalismo, bellezza. Sono convinto che le dinamiche del pensiero proprie di una cultura hanno la loro epifania nei grandi avvenimenti della storia e possono andare avanti indefinitamente finché non interviene qualcosa a modificarle. E quindi, quel misto di attrazione e repulsione con cui l'Occidente guarda l'Oriente va avanti, alternativamente, da un paio di centinaia di anni, se non di più. Possono cambiare le forme con cui si esprime, ma non i contenuti.
E così una volta mia moglie ridendo mi ha mostrato le foto di Aishwarya Rai chiedendomi se le indiane erano così - l'India, terra di sensualità senza inibizioni, vi ricorda qualcosa? Ingres sembrava quasi parlarmi: attraverso quadri, libri, e studi all'università era arrivato fino alla cucina di casa mia. No, comunque. Non sono per niente così. E per dovere di cronaca aggiungo che, per rassicurare mia moglie, è giunto in mio soccorso il mio lato queer, facendole notare che c'era ben poco di sensuale in ragazze che in ufficio portavano sandali alla francescana con tanto di calzini. Calzini grigi o marrone, con le dita divise. Roba che nemmeno il pigiamone di pile infeltrito, in quanto a eros.
Non tutti però possono avere l'apertura mentale della persona che ho sposato e che, con mia sorpresa, non ha ancora deciso di divorziare - anni di studi di lingue orientali e frequentazioni del medio oriente hanno dato a mia moglie un occhio più aperto sulle infinite varianti dell'essere umano, calzini compresi. Immaginatevi cosa mi sono sentito chiedere da persone che non erano mai uscite dal cortile di casa (e non è una colpa) e che non avevano la minima voglia di uscirne (forse questa un po' lo è). Una delle domande più gettonate da parte di tutti è stata se è vero che, dopo mangiato, ruttano - ah, l'India, Oriente lontano dove i barbari soddisfano i più bassi istinti. Appena dicevo di sì, che era capitato, giù tutti a scuotere la testa, e a niente valeva il fatto che dicessi che mi è parso che non fosse niente di ostentato, che anche a me non faceva piacere ma che erano solo delle sovrastrutture culturali. Niente da fare. Se fossimo stati nella Francia dell'Ottocento avrebbero pensato che erano da acculturare, nell'Inghilterra del Novecento che erano da colonizzare. Nell'Italia moderna, che non sanno stare a tavola.
Stessa solfa anche a livello lavorativo: "allora questi indiani, sono i tecnici onniscienti/gli scansafatiche assoluti/gli incompetenti ma volenterosi che tutti dicono?". No ragazzi, non lo sono. Sono delle persone. Con tutti gli scazzi, gli slanci, i colpi di intuito di una qualsiasi altra persona. Dopo solo un mese passato in India, riesco già a vedere attraverso l'Orientalismo, i quadri di Ingres, i libri di Said e gli specchi con cui ci guardiamo l'un l'altro da secoli. Non vedo nient'altro che persone come me. Chiusura un po' enfatica ma vera.